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Come la rivoluzione digitale ha cambiato ogni aspetto della nostra vita, privata e lavorativa

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Nel 1895, in un saggio intitolato “Il libro, strumento spirituale” il poeta simbolista francese Stephane Mallarmé lanciò per la prima volta la sua provocazione più famosa: “In fondo, il mondo è fatto per finire in un bel libro”, scrisse. Mallarmé non pensava semplicemente a un libro come un altro, ma (come avrebbe spiegato in una lettera al suo amico Verlaine) al Libro per eccellenza, “convinto che in fondo non ve ne sia che uno solo… architettonico e premeditato… la spiegazione orfica della Terra”. Per tutto il resto della vita si dedicò a questo progetto: dato che il libro nella sua forma attuale non era  all'altezza del compito, si accinse a creare un nuovo super-libro ramificato e transmediale che avrebbe contenuto in sé il teatro, la danza e la musica, persino il rito, e avrebbe impiegato tutte quelle forme riconfigurandole in un “sistema di rapporti” totalizzante, che lui avrebbe definito semplicemente le Livre (con la L maiuscola).

Trent'anni dopo Bronislaw Malinowski, il padre dell'antropologia moderna, espose una simile ambizione per il campo dell'etnografia. Il suo Primo Comandamento per tutti gli aspiranti antropologi era semplicemente “Annotatevi tutto”. Dato che ogni particolare, dai dettagli di una cerimonia del tè alla forma della fibbia di una cintura cerimoniale, avrebbe potuto rivelarsi cruciale per svelare la logica di una determinata tribù, rifletteva Malinowski, bisognava annotare tutto, analizzare, mettere in correlazione ciascun particolare con tutti gli altri, finché, voilà!, tutto il tessuto sociale non svelava il segreto della sua trama.

Facciamo un salto di novant'anni, e si potrebbe avere l'impressione che le aspirazioni di entrambi gli autori si siano realizzate. Il “sistema di rapporti” di Mallarmé che contiene tutti gli oggetti e i fenomeni si incarna nel World Wide Web. Anche il Comandamento di Malinowski è stato osservato: non tra le tribù remote, ma tra i cittadini dei paesi ultra sviluppati. Ora è davvero tutto annotato. Non c'è un momento della nostra vita  che non venga documentato: passeggiando lungo un tratto di strada veniamo filmati da telecamere, tracciati con il GPS, monitorati dai telefoni che teniamo in tasca. Ogni sito internet che visitiamo, ogni tasto che tocchiamo viene archiviato. Ora le reti di affinità sono mappate da software che creano tabulati e rimandi tra quello che compriamo e i nostri conoscenti, e quello che loro comprano, o che gli piace, e con gli altri oggetti che piacciono o vengono comprati da altre persone che non conosciamo, ma che hanno modelli di gusto e di acquisto in comune con noi.

E in tutto questo dove si colloca l'antropologo, o lo scrittore? O il cittadino, se è per questo? Forse queste domande in realtà coincidono. Quello che mi affascina, in quanto scrittore, nell'ascesa della cultura digitale e dei regimi di sorveglianza estrema che implica, non è tanto il vecchio adagio che tutta la letteratura è politica, ma piuttosto il contrario; è la politica a diventare una questione letteraria. Letteraria nel senso che la  vita pubblica – e privata – si ritrova governata dalla propria trascrizione: quando tutto viene annotato in un registro di qualche tipo, allora l'esperienza in quanto tale, e con essa il problema del libero agente (siamo padroni di noi stessi? O tutti i nostri gesti e le nostre decisioni sono governati e decisi dagli algoritmi?), si riducono a istanze e atti di scrittura.

Kafka aveva previsto tutto questo. Nel suo racconto Nella colonia penale immaginò un gigantesco macchinario a cui i prigionieri vengono legati, e che incide loro nella carne le parole della legge, “Sii giusto” , in iterazioni di un'autointrospettività grottesca. Secondo il filosofo Michel de Certeau viviamo tutti dentro quel macchinario: nel capitalismo, sostiene, tutti i corpi “vengono quindi trasformati in testi, in aderenza al desiderio che ha l'Occidente di leggere i propri prodotti”. Se volete vedere l'ultima apparizione del macchinario, guardate la famosa foto della sede NSA nel Maryland scattata da Trevor Paglen. È una colossale scatola nera, che contiene registrazioni di… praticamente tutto. Questo è il Libro della modernità liquida: ma chi è in grado di leggerlo? Nemmeno l'NSA è capace di analizzare e vagliare e mettere in correlazione i miliardi di dati contenuti tra le copertine del suo libro nero, o sa come interpretarlo.

Forse è qui che la questione comincia a cambiare: forse non è più la scrittura a stare al centro del problema, ma è la lettura. Un atto che, sia per il cittadino che per l'artista, non serve più a trovare nuove forme di espressione: ma a trovare nuovi modi di mappare, navigare, leggere la nostra via d'uscita dal macchinario di scrittura, o almeno il percorso al suo interno verso l'uscita.


Tom McCarthy