Il semplice eroismo di Indurain | Pirelli

Il semplice eroismo di Indurain

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Prima di buttarsi all'inseguimento della quarta vittoria, Chris Froome deve aver dato studiato a fondo l'albo d'oro del Tour de France per motivarsi, consapevole che la sua impresa sarebbe un unicum. Non un record, ma un'anomalia. Nessuno nella storia ha mai vinto quattro Tour. O meglio, nessuno si è fermato lì. In questa classifica, infatti, ci sono quattro corridori fermatisi a quota 3 e quattro campioni con 5 successi: Anquetil, Merckx, Hinault e, da ultimo, Indurain.

PZeroVeloMiguelon. Grande, imponente, austero. Indurain non incuteva timore, rispetto sì, ma tutto sommato dava sempre l'impressione di essere pronto a sedersi allo stesso tavolo degli avversari e degli spettatori. In un angolo, probabilmente in silenzio. Allo stesso modo si è avvicinato al ciclismo, partendo dalle taverne di provincia sino ad approdare alla grande osteria del ciclismo: il Tour de France.

Un hombre de campo
Villava non è definibile come paese, è più una propaggine, un lembo che si estende alla periferia di Pamplona, tra i primi pendii che delimitano la Cuenca e il fiume Ulzama. Villava non appartiene alla città. È campagna, anche se sul finire degli anni '80 non ha più campi, e l'agricoltura che ne ha plasmato il tessuto sociale è emigrata altrove. Resta una sola azienda agricola a Villava, piccola ma sufficiente a garantire il benessere alla famiglia che la gestisce: il nome sul cancello dice Indurain. 

Secondo di cinque fratelli, Miguel era cresciuto nella normalità della vita del campo, aveva imparato a guidare prima il trattore della bicicletta, e a detta del padre era con il primo che se la cavava meglio. Anche quando iniziò a pedalare, Miguelon non abbandonò mai il campo, cui si dedicò anche nei primi anni dei suoi successi. Fu l'attaccamento alla terra a fare di Indurain un ciclista: quando i genitori decisero di iscriverlo al colegio a Pamplona, Miguel individuò nella bici la sua forma di dissenso. Eccellere nello sport avrebbe significato allontanarsi dalla scuola, dunque riavvicinarsi alla campagna. 
Una voce che girava in gruppo ai primi tempi del professionismo di Indurain sosteneva che la vera ragione dei ritiri dai suoi primi due Tour de France fosse il richiamo della famiglia a lavorare la terra. Eusebio Unzué, il suo team manager, ha sempre negato questa versione. «Eppure», aggiungeva, «capisco che sembri realistico".

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Predestinato
Una delle più famose foto di Fausto Coppi, un altro campione di campagna, fu pubblicata dal settimanale Epoca e ritraeva il corridore di Castellania completamente nudo. A rivederla oggi, a confrontarla con i ciclisti protagonisti in tv in questi pomeriggi, è molto distante dall'odierna estetica del campione, eppure qualcosa di fenomenale si nota: le dimensioni della cassa toracica. 
Di Miguel Indurain non si hanno foto nude, ma lo sguardo cadrebbe ancora lì. Indurain era un predestinato, il destino dei suoi successi stava scritto nel suo fisico: quasi 8 litri di capacità polmonare e un cuore che batteva 28 volte al minuto: pochi battiti in meno e sarebbe stato ricoverato. Un articolo di Sports Illustrated, nel 1993, descrisse i polmoni di Indurain come «così grandi che se si guarda con attenzione alla sua schiena mentre pedala si riesce ad intuirne il delicato ondeggiamento».

E poi quel corpo lungo ma non slanciato, da passista che sapeva essere straordinario scalatore; le leve che ne avrebbero fatto uno dei cronoman più grandi di tutti i tempi. La pedalata di Indurain godeva di un'aerodinamicità naturale, capace di farlo eccellere negli anni in cui il ciclismo ha toccato forse l'apice della sua eleganza: corridori perfetti come Bugno, Jalabert o Tonkov si trovarono battuti da un basco che era salito per la prima volta su una bici da crono nel 1991, al settimo anno da professionista, al primo Tour vinto. 

Su queste basi, Miguelon seppe costruire una carriera basata sul lavoro, che da campo diventò allenamento. A guardarlo dominare le corse sembrava non soffrisse nemmeno, il perché andava cercato nelle sue pedalate sulle strade di Navarra, nell'abitudine alla sofferenza. «Sono andato molto lontano sulla strada del dolore», ha detto una volta.

La progressione armonica
Indurain era un predestinato, si è detto. Era un buon seme piantato nel giusto terreno, ma per raggiungere ciò che il suo destino aveva programmato, ha avuto bisogno di essere coltivato, di crescere lentamente, prima di dare frutto. Basta osservare i suoi piazzamenti al Tour per comprenderne la parabola: due ritiri, poi 97°, 47°, 17°, 10°, quindi vincitore per cinque anni di fila. Mai nessuno era riuscito a fare un filotto del genere prima di lui, così come nessuno dei magnifici sette in grado di fare doppietta Giro-Tour è mai riuscito a farlo per due anni di fila. 

Per capire Indurain, però, bisogna passare da un'altra figura. Da José Miguel Echávarri, “il poeta”, il ds che lo ha seguito per l'intera carriera. È impossibile dire cosa sarebbe diventato Indurain se non avesse incontrato questo DS strano, che ha sempre creduto in qualcosa di fortemente impopolare nel ciclismo: la calma. Echávarri, lentamente, ha saputo imparare a interpretare i silenzi di Miguelon. Quelli che tutta la stampa e tanti appassionati non riuscivano a tollerare. Silenzi di attesa, tempi dilatati di un uomo il cui cuore batteva alla metà della velocità dei suoi interlocutori, incapace di compiere un gesto di troppo. 
«Ho ereditato la calma da mio padre, che era un contadino», ha detto Indurain in un'intervista di qualche anno fa. «Si semina, si aspetta per il buono o il cattivo tempo, si raccoglie, il lavoro è qualcosa di cui c'è sempre bisogno». Anche sulla cima del mondo, Indurain restava hombre de campo. Quando scendeva di sella, dedicava il suo tempo a riposarsi, a recuperare per un nuovo sforzo. Del proprio corpo aveva piena coscienza, il resto gli interessava poco. Il resto erano silenzi, un linguaggio prevalentemente fatto di gesti, che quasi nessuno riusciva a comprendere. Echávarri  a quei silenzi si abituò, li seppe assecondare sino a plasmare il più forte di sempre nella disciplina della solitudine: la cronometro, la prova che Indurain sapeva dominare non solo col fisico, ma con la libertà data dal sentirsi bene solo con se stesso.

Un orologio
Per chi ha conosciuto il ciclismo sul principio degli anni '90, Miguelon è stato qualcosa di più di un campione. Era una sentenza. Che Indurain vincesse il Tour era un processo inevitabile. Si poteva entusiasmarsi per i suoi rivali più audaci: il vivacissimo Chiappucci prima, il sublime Pantani poi, che della statuaria potenza di Indurain fu capace di far emergere le crepe. Ma l'entusiasmo si fermava, a un certo punto; non poteva deviare il destino. Lo chiamavano L'Extraterrestre. 

Per i suoi avversari Indurain era un gigante, lo sintetizzò bene Chiappucci in una vecchia intervista a Bicisport: «Quando proviamo ad attaccare Indurain mi viene in mente l'immagine degli aerei che combattono contro King-Kong, arrampicato sull'Empire State Building. E Chioccioli, Giovannetti ed io siamo gli aerei». Per i giornalisti Indurain era un mistero, a volte diceva soltanto "Bueno...". Impossibile scalfirne la barriera del silenzio, basta riguardare l'annuncio del suo ritiro: Miguel legge con tono monocorde un foglietto già preparato. Quasi non solleva lo sguardo. 

Indurain irruppe nel grande ciclismo un'estate, e arrivò per restare. Non era bello e sorridente come Perico Delgado, castigliano. Era brutto e taciturno, veniva dalle periferie di un impero dimenticato e si trascinava questo nome quasi da capotribù, da barbaro. Cacciatore, contadino, allevatore di cavalli, Miguel Indurain era la cosa più lontana che ci si potesse aspettare da un genio. Eppure tutti i cultori del toreo concordano sul fatto che c'è un solo luogo dove la tauromachia esprime la sua purezza, e non sono certo le arene plaudenti: è il campo.