Quali sono le sfide che attualmente si ritrova ad affrontare a causa del suo approccio al design e dei modi in cui sviluppa il suo processo creativo? Cosa la stimola e cosa invece la annoia?
Mi annoio molto facilmente, ma per fortuna ho costruito un sistema di infrastrutture che mi permette di godere di un certo grado di ibertà. È quasi come se l'azienda fosse stata creata in modo da permettermi di produrre oggetti al ritmo di un brand di moda. Non penso che gli oggetti debbano essere alla moda: devono essere in grado di resistere al tempo, ma noi produciamo per lo più su base stagionale, presentando costantemente novità. Quindi se mi annoio o mi ripeto è solo colpa mia. Questo è il vantaggio di avere un marchio proprio. È un modello significativamente diverso da quello della maggior parte dei product designer che conosco, perché molti di loro lavorano in studi legati a aziende manifatturiere o ad altri marchi. Noi ci distinguiamo perché gestiamo internamente lo sviluppo del nostro prodotto, dalla fase di progettazione a quella di distribuzione e marketing: per questo è così stimolante. Ma anche questo modello nasconde le sue insidie e i suoi incubi. Tanti designer mi dicono: “Oh, dev'essere così bello essere in grado di fare quello che fai, e avere i tuoi prodotti tutti insieme, ed essere in grado di presentarli come un lavoro unitario.” Molti designer producono una lampada con un'azienda, una sedia con un'altra, un accessorio con un'altra ancora, ma alla fine sono tutti pezzi di uno stesso puzzle. Tutti abbiamo magazzini pieni di oggetti che dobbiamo vendere. Insomma, non credo che la perfezione esista, ma quello che mi interessa è vedere se i designer possono agire in un modo un po' diverso e rivendicare la loro identità e il loro punto di vista. Molto spesso i designer sono usati più per la comunicazione che per la creazione, o vengono impiegati per creare meraviglie che funzionano più per il marketing di un’azienda piuttosto che come oggetti che si possono vendere in grandi quantità.
In un breve video lei descrive il processo della saldatura, e sembra quasi un alchimista. Il know-how di un saldatore dipende in buona parte da esperienze sensoriali. Con questo tipo di esperienza alle spalle le capita mai di tracciare un confine tra il “processo di design” e il “processo di creazione”?
Io lavoro per lo più come si faceva nell'era pre-computer. La fase di progettazione è cambiata molto, ma ancora vedo una distinzione reale tra chi ha iniziato a progettare in un mondo virtuale e chi invece ha dovuto scolpire oggetti partendo da modelli e così via. Quando hai bisogno di creare un modello in scala o un prototipo devi effettivamente creare un oggetto in modo fisico. Quindi per noi il processo credo sia ancora molto tattile. Non credo che la realtà virtuale sostituirà mai quella competenza. Quando progetti qualcosa al computer, per scegliere i materiali basta cliccare su un pulsante e improvvisamente un oggetto diventa trasparente, o di cemento, o di acciaio, o di plastica. Programmi sempre più sofisticati ti diranno se quell'oggetto può funzionare in forma fisica. Ma io ho sempre dovuto sapere come produrrò qualcosa, non mi basta creare un involucro virtuale e trovare il modo di realizzarlo. Questo è molto evidente in campo architettonico, dove ci sono persone in grado di creare edifici straordinari, persone che possono farlo, ma sotto sotto ci sono ancora pezzi di acciaio e di legno, e gli architetti non fanno altro che curvarne pezzetti e aggiungerli a una sorta di finta pelle sulla struttura dell'edificio. Tutto ciò cambierà molto velocemente con l'avvento di metodi di costruzione più sofisticati e convenienti grazie a materiali più interessanti. Questo trasformerà buona parte del mondo costruito, e stiamo iniziando a rendercene conto solo adesso. È quasi giunto un periodo incredibile che potrebbe anche lasciare molti di noi disoccupati, proprio com'è successo nel mondo della musica.