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La realtà è la strada maestra

La realtà è la strada maestra 01

Ci sono delle professioni che si scelgono per passione, per vocazione. Il giornalismo, oggi può suonare strano, ma è certamente una di queste, soprattutto se la strada che si sceglie è quella dell'inviato di guerra. A Francesca Mannocchi questa definizione non piace affatto, preferisce definirsi come una giornalista che parte per raccontare i conflitti. Mannocchi ha raccontato i conflitti in Afghanistan, in Siria, in Iraq, ha raccontato le migrazioni di chi attraversa la Libia, la Turchia. Da febbraio è in Ucraina, da dove prova a fare quello che la ha mossa e portata a fare questo lavoro: utilizzare il potere del racconto, dare testimonianza di ciò che succede attraverso i fatti e non attraverso le opinioni. È sulla base di questa consapevolezza che secondo lei il mestiere del giornalista non è in crisi, ma che anzi in questi momenti storici più turbolenti sia ancora più fondamentale proprio perché le persone hanno sempre più bisogno di strumenti per capire il reale, di avere qualcuno che racconti la realtà e dia interpretazione della complessità attraverso ciò che le fonti danno la possibilità di conoscere. «Molte persone hanno un'immagine romantica di chi fa il mio lavoro. Capita di dormire al freddo, di mangiare barrette di cioccolata per due giorni e non potersi lavare. Ma ogni volta che mi fermo a pensare ad alcune piccolissime difficoltà che abbiamo noi, che poi torniamo a casa, ricordo che lo strazio è di chi vive le guerre per anni. Per loro, le nostre difficoltà provvisorie, diventano definitive. Così ho imparato che per vivere servono sempre meno cose di quante non pensiamo e sono sempre più insofferente all'inutile lamento di quando torno».

Quando è nata in te la passione per il giornalismo?

«Ho sempre voluto raccontare storie, credo che l'amore per la narrazione me l'abbia consegnato mia nonna, Rita. Dormivo spesso da lei da bambina, la sera prima di addormentarmi mi raccontava le storie della sua infanzia e della sua adolescenza, era nata nel 1930, quindi molte erano legate alle privazioni della guerra. Insieme mischiava le storie di Pollicino e Cappuccetto Rosso. Nella mia memoria di bambina i dettagli delle une e delle altre storie si univano in un solo tessuto. Mi ha insegnato il potere del racconto, il resto è venuto da sé. Ho iniziato a raccontare l'Italia, cercando di farlo con la stessa passione e la stessa indignazione verso le ingiustizie con cui oggi racconto le guerre».

Quali sono le difficoltà di questo lavoro?

«Talvolta sei esposto al pericolo, non sai dove dormi, se e cosa mangerai. Dove ti troverai domani. Tutto questo contribuisce a generare una fascinazione per la mia professione, ma è vero solo in parte. Siamo esposti a situazioni pericolose, è il mestiere che abbiamo scelto e dobbiamo essere preparati a fronteggiare situazioni di emergenza. Servono giubbotti antiproiettile, elmetti, saper usare il kit medico. Serve sapere fin dove ci si può spingere e dove fermarsi».

Con il web e i social com'è cambiato il racconto di una zona di guerra?

«Da un punto di vista logistico, non c'è dubbio che il web sia stato e possa essere uno strumento utile, basti pensare cos'erano le guerre trent'anni fa e come oggi si possa vedere una mappa sul cellulare. Le guerre degli ultimi anni sono state molto condizionate dai social. Per noi giornalisti è stato uno strumento, penso per esempio alla guerra di Mosul: leggevamo i social ed eravamo aggiornati in tempo reale su cosa stesse accadendo e dove. La cosa necessaria però poi è verificare le informazioni».

E dal punto di vista negativo?

«Ce ne sono molti. La diffusione della propaganda da un lato e la fretta di dare le "notizie" dall'altro. Pronuncio la parola notizie tra virgolette perché i social negli ultimi anni hanno dato a editori e giornalisti la sensazione, l'illusione, che essere in un luogo fosse condizione sufficiente per saperlo raccontare. Che una diretta video bastasse alla narrazione, che mostrarsi nello svolgersi di una guerra facesse di una persona un giornalista. Bene, non è così. Esserci non significa capire dove si è. Avere fretta di raccontare non è mai sinonimo di buona narrazione. I social non vanno demonizzati ma vanno usati con grandissima cognizione».

Rispetto ai tuoi precedenti viaggi, come hai visto evolversi la comunicazione sia delle truppe che delle forze in campo in Ucraina?

«La comunicazione sul campo della guerra in Ucraina si muove sulla scia degli ultimi conflitti che ho raccontato negli anni precedenti. A essere cambiata è l'esposizione social e il racconto dei soldati, della vita dei civili. Ma questo, credo, più che avere a che fare con il mezzo, ha a che fare con il livello di interesse dell'Europa. Siamo prossimi geograficamente, questa guerra sembra riguardarci più delle altre, riempie le pagine come recentemente non era mai successo.Abbiamo raccontato i conflitti sempre a fiammate. Quello che è peculiare è la pervasività della propaganda e delle informazioni non veritiere che, certamente, nel caso di questo conflitto sta toccando picchi senza precedenti. La disinformazione russa è una macchina molto potente. Quello che colpisce è quanto abbia attecchito in Italia. In nessun altro Paese occidentale c'è così tanto spazio per informazioni false come. In questi mesi c'è stata una grande, terribile e pericolosa confusione tra libertà d'espressione e menzogne. “Sentire le ragioni dell'altro” è diventato sinonimo di diffusione di informazioni che non hanno una base di realtà. “Gli ucraini hanno vietato la lingua russa” è falso, eppure è ripetuto in tv senza contraddittorio. Questo rende differente la guerra ucraina da tutte le altre, perché la intossica».

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La moltiplicazione delle verità è sempre più frequente. Sembra che un fatto, una foto, possa sempre essere messa in dubbio.

«In questo conflitto vedo spesso l'assoluta negazione del piano di realtà. Si tende a dubitare che ci siano stati morti al teatro di Mariupol o delle vittime di Bucha nonostante siano stati confermati da inchieste durate mesi. Una foto rimane vera, è opinabile ciò che ognuno vede in quella foto, anche tra i giornalisti. Questo non ha a che fare con il nostro lavoro, la nostra deontologia dà delle regole, soltanto che chi le rispetta non viene punito».

Il ruolo del reporter negli ultimi anni si è deteriorato della sua autorevolezza?

«Forse i reporter sono gli unici tra i giornalisti ad avere ancora credibilità. Quando hai a che fare con la realtà si può sindacare poco sulle menzogne. Non è un caso se i reporter in guerra raccontano tutti le stesse cose in maniera compatta, a prescindere dalle idee politiche e dalla testata. La verità fattuale è e rimarrà sempre una sola».

Come evolverà secondo te il giornalismo?

«Non credo che il giornalismo sia morto, anzi credo che nei momenti di crisi il giornalismo tiri fuori le sue migliori risorse. Questo è un momento straordinario per il racconto, i giornali sono in crisi perché sono pieni di opinioni e poveri di storie. In America il Washington Post quando era in difficoltà non ha diminuito gli inviati, ma li ha moltiplicati. La differenza che può fare il giornalismo è raccontare la realtà. Ci vogliono più persone in giro per il mondo, più persone in grado di leggere la complessità. I lettori hanno molto più bisogno di complessità di quanto non si pensi».

Di che cosa si compone secondo te un buon reportage?

«L'ingrediente più banale è la curiosità: bisogna essere disposti a partire per voler raccontare un'idea e poi decostruirla pezzo dopo pezzo perché la realtà ti supera sempre. Bisogna avere molto chiaro che non scriviamo per noi stessi, ma dobbiamo portare il lettore dove non è stato e non può essere. Bisogna imparare a leggere e interpretare il mondo».

A livello personale, umano, cosa ti ha creato maggiormente difficoltà durante i tuoi viaggi?

«Di solito non ci penso. Quando lavoro le problematiche sono molto spesso pratiche: l'elettricità per caricare le telecamere, dove mangiare o cosa. Provo a non pensarci perché le mie difficoltà sono spesso temporanee rispetto a quelli che intorno a me le vivranno in maniera duratura. La fatica principale è trovare posto dentro di noi per il dolore degli altri. Serve trovarlo, non lasciarlo fuori, e provare a scriverne con grande rispetto piuttosto che con grande pietà».

Cosa vuol dire raccontare?

«Che la realtà è la strada maestra, è la più grande e preziosa insegnante che possiamo avere. Bisogna non averne paura, attraversarla senza temere il fatto di poter cambiare idea».