Secondo l’Agenzia per l’Educazione, la Scienza e la Cultura dell’Unesco, nel corso dell’ultimo secolo sono scomparse circa 600 lingue, una ogni due settimane, e le previsioni dicono che, se il trend dovesse continuare, entro il 2100 più del 90% delle lingue attuali non esisterà più. Un effetto strettamente legato da una parte all’estinzione stessa di abitanti di piccoli villaggi e quindi delle loro culture, dall’altra alla scolarizzazione in alcune parti del mondo – come in Canada, Australia, Sud Africa – in cui viene insegnata la lingua nazionale anche alle piccole comunità. Un percorso di omogeneità che automaticamente azzera una frammentazione culturale fino ad ora fortemente caratterizzante e identitaria.
La globalizzazione del resto ha fatto sì che le onde migratorie legate a motivi principalmente professionali si siano adeguate alla lingua nazionale delle città a cui miravano per potersi integrare nel tessuto lavorativo e culturale nel migliore dei modi.
In un paese nel Nord del Canada, la lingua Inuit è conosciuta per avere 50 diversi modi di dire “neve”, in quanto gli abitanti ne sono attenti osservatori tanto da poterne definire la tipologia e capire dove poter andare a caccia e dove invece il pericolo è troppo alto.
Una conoscenza così specifica e altamente qualificata può essere di grande interesse per gli scienziati che oggi studiano gli effetti del cambiamento climatico cercando di prevedere e quindi prevenire lo scioglimento dei ghiacciai, ma non solo. Questa e molte altre particolarità delle lingue in via di estinzione rischiano di dissolversi nel tempo, così come le incredibili conoscenze stesse di popolazioni tribali su temi quali la zoologia, la botanica, la medicina, la natura in generale. Preservare questo tipo di conoscenza risulta dunque fondamentale per la sopravvivenza stessa dell’uomo.
Il linguaggio fa parte della diversità che in un mondo sempre più globalizzato è fondamentale per la formazione stessa del nostro pensiero e del nostro mindset.
Se da un lato, come abbiamo visto, molte lingue stanno scomparendo, dall’altro la comparsa del web ha portato con sé la nascita di un’infinità di nuovi termini figli dell’era digitale e un enorme aumento di forme basate sul testo.
Come scrive Kenneth Goldsmith nel suo ultimo libro “CTRL+C CTRL+V (scrittura non creativa)”, “dall’email ai post dei blog, agli SMS, agli aggiornamenti di status sui social network e le frecciate su Twitter: siamo immersi nelle parole come non lo siamo mai stati”. Parole vecchie e nuove, aggiungerei.
Il mandarino cinese è una delle lingue più complesse al mondo: nel suo dizionario ci sono circa 370mila parole, più del doppio del numero di parole del dizionario di Inglese di Oxford e quasi tre volte di quello francese e russo. A questa miriade di parole se ne stanno però aggiungendo delle altre, come spiega la BBC in un articolo dedicato: sono le cosiddette “hot words”, ossia termini slang che i giovani cinesi stanno creando e utilizzando online per comunicare come si sentono realmente relativamente ai trend del momento così come alla situazione politica del Paese.
Ci sono più di 750 milioni di users cinesi e alcuni di questi stanno creando nuove parole per sfuggire alla censura: per esempio il termine “niubi” viene utilizzato per indicare qualcosa di “cool”, o “antizen”, un gioco di parole che invece trasmette l’impotenza dell’opinione pubblica generale. Un fenomeno che risponde anche alla nuova necessità dei tanti cinesi che ormai comunicano con persone che si trovano in parti della stessa nazione in cui però l’accesso alle informazioni o ad alcuni media in particolare non è permesso allo stesso modo.