Numerose ricerche concordano nel notare che la popolazione urbana è in crescita costante: ormai da qualche anno la percentuale di abitanti urbani ha superato l’asticella del 50% della totalità di quelli mondiali. Entro il 2050 si stima che si possa arrivare al 70% e superarlo. Nel mondo si contano oggi 501 aree metropolitane con più di un milione di abitanti; uno studio delle Nazioni Unite sostiene che diventeranno 660 entro il 2030. Una crescita esponenziale, senza precedenti: un milione di newyorchesi in più nei prossimi vent’anni, due miliardi di cinesi in più nelle metropoli del proprio paese. C’è stato un tempo in cui si era teorizzato che proprio la facilità di interazione favorita dall’innovazione tecnologica avrebbe arrestato il processo di urbanizzazione e reso le città obsolete, facendo venire meno, negli esseri umani, il bisogno di ritrovarsi fisicamente vicini l’un l’altro all’interno di comunità territorialmente ben definite. Un’analisi del presente, e una facile previsione del futuro, dimostrano l’esatto contrario: sono le città, le grandi città, con la loro capacità di mettere in contatto intelligenze diverse e di far circolare idee, il motore del grande cambiamento in atto a livello globale. È un fenomeno, questo della ritrovata centralità dei grandi centri urbani, che non può prescindere dai passi avanti che le città hanno compiuto, negli ultimi anni, in campi come l’ambiente, la mobilità, la qualità della vita. Vi è stato un tempo, negli anni successivi alla rivoluzione industriale, in cui le grandi metropoli attraevano la popolazione rurale per motivazioni meramente economiche e di sopravvivenza: il lavoro era lì, a qualsiasi condizione. Tutto ciò aveva portato a un deterioramento della qualità della vita nelle grandi città: la New York violenta e nient’affatto sicura degli anni ’70, la Londra infestata dal tanfo del Tamigi negli anni ’50. Istantanee che sono parte integrante di cronaca e letteratura del secolo scorso. Uno scenario, oggi, completamente ribaltato.
Non solo le grandi città sono tornate ad essere “the place to be”, il posto dove non solo è necessario vivere, ma dove ci si sposta per scelta (è più facile sentir dire “vorrei vivere a Berlino” rispetto a “vorrei vivere in Germania”, “amo San Francisco” rispetto a “amo gli Stati Uniti” e così via), non solo sono ormai gli hub principali del progresso tecnologico, ma sono, secondo molti addetti ai lavori, addirittura la risposta migliore all’ingovernabilità diffusa che sembra aver messo in qualche modo in discussione i modelli di gestione della cosa pubblica degli stati nazionali. Senza arrivare a scomodare la suggestiva tesi sostenuta dal professor Benjamin Barber nel suo libro “What if Mayors Ruled The World”, nel quale l’eccentrico accademico americano teorizza che saranno i sindaci a salvare il mondo dallo stallo politico diffuso, è innegabile che, su alcuni temi, il dialogo globale fra le metropoli e i loro amministratori stia fungendo da acceleratore e facilitatore di nuovi paradigmi. Un esempio per tutti: i risultati notevoli raggiunti da un’organizzazione come C40, un network mondiale di più di ottanta megacities che scambia dati, condivide best practices, e si pone obiettivi comuni nel campo dell’ambiente, della riduzione di emissioni nocive, di cambiamento climatico, di sostenibilità. Con ottimi risultati. Non mancano ovviamente i rischi e le contraddizioni in questa rinascita che le città stanno vivendo. E sono, in molti casi, legati all’utilizzo che decideremo di fare dell’innovazione tecnologica.
Si è fatto, e si fa ancora, un gran parlare di smart cities, ad esempio. Città presenti e future, costruite ex novo (ve ne sono alcuni esempi notevoli già esistenti, in Corea del Sud, in Africa) in cui l’Internet delle cose e l’automatizzazione totale delle dinamiche metropolitane dovrebbero magicamente prevedere e neutralizzare ogni falla e imperfezione delle città come le abbiamo conosciute. Non è così e non sarà così: sarebbe il classico caso di utilizzo verticale e ottuso della tecnologia. Il contrario di quello che, ad esempio e per tornare da dove stiamo partiti, sta facendo proprio il Center for Urban Science and Progress: unire il progresso tecnologico alle intelligenze implementate dallo scambio fra esseri umani. Per dirla con le parole di Leo Johnson, ricercatore e consulente inglese, “meno smart city e più smart citizens”. La sfida, entusiasmante, è proprio questa.