I miei ricordi più vividi in bicicletta sono legati ai momenti peggiori.
In fondo, non dovrebbe sorprendere troppo: numerosi studi dimostrano che tendiamo a prestare maggiore attenzione – e a reagire più intensamente – agli eventi negativi piuttosto che a quelli positivi. Questa reazione acuta e immediata a ciò che è spiacevole – forse una forma di adattamento evolutivo utile a garantirci la sopravvivenza – si “imprime” con forza nella memoria, rendendolo più facile da richiamare alla mente.
E allora, qualche ricordo. Ad esempio quella volta, in un pomeriggio d'agosto tra le montagne di Gifu, in Giappone, in cui mi trovai a pedalare sulla salita, apparentemente infinita e a tornanti serrati, del passo Amou. Il sole era impietoso, la temperatura sfiorava i 40 gradi, e l'ombra era un miraggio raro.

Con gli occhi che bruciavano per il sudore, fissavo ossessivamente il ciclocomputer sul manubrio. Ogni volta che pensavo di essere vicino alla vetta, il dispositivo annunciava con entusiasmo l'imminente fine della salita. Ma poi crudelmente, per qualche strano errore nella mappatura, si “resettava” all'improvviso, rivelando – come un miraggio digitale – una nuova distanza da percorrere. Mi fermai più volte, sfruttando ogni minimo angolo d'ombra. Alla fine, raggiunsi la cima, stremato, in preda a quello che credevo fosse un colpo di calore (che si rivelò essere COVID: risultai positivo il giorno seguente).
In un'altra occasione, stavo pedalando con un gruppo sul passo Umbrail, tra le alte montagne al confine tra Svizzera e Italia. Dopo una lunga e costante salita, iniziai a scivolare in uno stato di ipoglicemia grave – quella che, tra ciclisti, si definisce con un termine eloquente: “bonk”, ovvero l'improvviso blackout energetico. Non avevo mangiato abbastanza e, quando finalmente mi decisi a farlo, era ormai troppo tardi per rimediare. Avanzavo lentamente lungo i tornanti del passo, ogni pedalata una fatica che si confondeva con la successiva, mentre nella mente si apriva un vuoto pieno di angoscia esistenziale. L'erba lungo la strada sembrava sussurrarmi di lasciarmi cadere, accogliermi nel suo abbraccio verde. Una ciclista – una di quelle persone solari per natura – mi raggiunse affiancandomi, cercando di incoraggiarmi con qualche parola di conforto. “Vuoi che ti canti qualcosa, Tom?”, mi chiese. La guardai con uno sguardo vuoto, disperato, quasi disgustato. Volevo solo che se ne andasse. Lei. E tutto il resto del mondo.
Un ultimo ricordo. Una gara in bici, tra le Catskill Mountains, nello stato di New York. Dopo qualche ora di corsa, mi avvicinai alla famigerata “Devil's Kitchen”, una delle salite più temute del nord-est degli Stati Uniti (in generale, ogni strada che porta un nome satanico o evocativo tipo “Sky Top Drive” dovrebbe far scattare l'allarme tra i ciclisti). Quasi quattro chilometri di salita con una pendenza media del 10%, ma con tratti che sfiorano il 20%. Fu su uno di questi tratti che mi accorsi di non avere più né rapporti né gambe a disposizione. Non riuscendo più a spingere sui pedali, iniziai a zigzagare da un lato all'altro della strada, nel tentativo di “ingannare” la montagna e addolcirne la durezza. Ma fu tutto inutile. Dovetti sganciare le scarpe dai pedali e camminare. Potrà sembrare un inconveniente banale, ma per un ciclista scendere dalla bici equivale a un capitano che abbandona la nave: un atto struggente, l'ultima spiaggia. Mentre arrancavo in salita, una squadra professionistica mi superò: le loro gambe giravano con una furia metronomica.
Avrete notato che tutti questi episodi ciclistici che occupano un posto così vivido nella mia memoria hanno un elemento in comune: le montagne.

Vette, passi, colline, Alpi, sierras, “horns”, “fells”, massicci, creste. Qualunque forma assumano, queste emersioni della terra sono l'essenza del ciclismo. “È impossibile parlare di ciclismo senza parlare di montagne”, scrive Susannah Osborne nell'introduzione del libro Mountains: Epic Cycling Climbs. “Il Mont Ventoux, il Passo dello Stelvio, l'Alpe d'Huez: queste vette leggendarie sono diventate templi dove i ciclisti vanno per costruire un senso di sé”. E sebbene i ciclisti, tecnicamente, non stiano conquistando le montagne, ma piuttosto le strade con cui le civiltà hanno cercato di domarle, il ciclismo condivide qualcosa di profondo con l'alpinismo. “Non conquistiamo le montagne,” disse il grande alpinista Sir Edmund Hillary, “ma noi stessi”.
È in quelle alture che si formano i ricordi — e non sempre sono piacevoli. La leggenda del ciclismo italiano Fausto Coppi, raccontando la sua celebre vittoria nell'edizione del 1941 del Giro di Toscana, ricordava come una delle sue prove più dure una salita spietata di 15 chilometri verso il Colle Saltino. Nessun tifoso a bordo strada, solo fango, pioggia e vento a fargli compagnia. “Affrontai quella salita da solo e la portai a termine”, scrisse. “L'ho sognata molte volte, e ancora oggi la vedo come un incubo.” Arrivò in vetta in lacrime.
Le montagne sono punti di svolta: barriere fisiche e psicologiche imponenti, teatri naturali dove spesso si decidono le grandi corse a tappe, come il Tour de France. Nel 2024, ad esempio, il fuoriclasse sloveno Tadej Pogačar mise praticamente fine alla corsa in una giornata entrata nella storia come la più straordinaria prestazione in salita mai registrata: l'ascesa da record al Plateau de Beille, che superò quella leggendaria di Marco Pantani nel 1998. Per buona parte della salita, Pogačar aveva condiviso il ritmo indiavolato con il danese Jonas Vingegaard. Ma a cinque chilometri dal traguardo, il danese, che si trovava in testa, sembrò accennare un gesto per invitare lo sloveno a prendere il comando. Un gesto apparentemente banale, ma che Pogačar interpretò come un segnale di cedimento. Fu allora che scattò con un attacco devastante, lasciando il rivale — che, ironicamente, firmò la seconda miglior prestazione in salita di sempre — senza possibilità di risposta.
Da ciclista né professionista né dotato del fisico tipico dello scalatore – sono più simile a un gregario, una sorta di cavallo da tiro alto, non particolarmente agile, capace di mantenere ritmi costanti in pianura – la montagna diventa l'avversario per eccellenza e l'obiettivo principale è semplicemente arrivare in cima. Negli anni ho sperimentato varie strategie per superarle: incoraggiamento mentale, l'immaginare una mano invisibile che mi spinge dolcemente sulla schiena, la musica nelle orecchie.
Un consiglio ricorrente è quello di “spezzare” la salita in una serie di piccoli traguardi: prima arrivare a un tale cartello, poi puntare a un nuovo obiettivo. L'ex ciclista professionista Phil Gaimon una volta mi suggerì di dividere ogni salita in tre parti. “Nel primo terzo trattengo lo sforzo e mi ripeto ‘facile',” mi disse. “Nel secondo terzo mi dico ‘costante', e nell'ultimo posso finalmente sentire che sto spingendo davvero.”
Probabilmente qui c'è una metafora per molte sfide della vita. Quando, per esempio, ho iniziato una salita troppo forte, con l'idea di “togliermela” il prima possibile, spesso mi sono ritrovato a superare altri ciclisti, salvo poi crollare molto prima della vetta. È meglio cominciare piano, prendere il ritmo, capire le richieste dello sforzo, e solo quando hai imparato a gestirlo, iniziare a dare tutto. Mai fissarsi su quello che fanno gli altri – non fa che aumentare la pressione. Meglio cercare il proprio ritmo interiore, e restare concentrati su quello. “Non importa quanto sei veloce,” mi disse Gaimon, “arrivati in cima, siamo tutti ugualmente esausti”.
Durante la mia faticosa traversata nelle Alpi giapponesi, mi capitava di incontrare ogni tanto un hokora, un piccolo santuario della religione shintoista – un richiamo al fatto che, in molte tradizioni, le montagne sono associate al sacro. L'atto stesso di scalarle può assumere un valore devozionale. Io non stavo pedalando con questo spirito, ma non posso negare che, durante quella salita, ho avuto la sensazione di attraversare una sorta di prova di fede – verso me stesso – e di uscirne in qualche modo trasformato. Ed ecco un fatto curioso: se in quel momento mi sentivo completamente sopraffatto, col senno di poi quell'esperienza negativa è diventata un ricordo positivo, duraturo. Ha raggiunto un altro livello. Al contrario, molti dei momenti di gioia pura e semplice piacere provati in sella sono svaniti – come il sudore che il vento porta via dal corpo. Abbiamo bisogno di queste montagne – reali o simboliche – per sentirci interi.
Credits illustrazioni: Elisabetta Bianchi