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Giro 1914, una sfida oltre i limiti

Il Giro d’Italia del 1914 è stato il più duro di sempre: tappe da 400 km, fango, neve, forature, ritiri di massa

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È considerato il più duro della storia del ciclismo, diventato leggendario per un insieme di fattori: l'estrema lunghezza delle tappe, mediamente di quasi 400 km, per un totale di 3.162 km, resi ancor più difficili per le condizioni spesso proibitive del tempo e delle strade, tutte sterrate. Questo ha portato a un gran numero di ritiri, il record negativo assoluto di tutta la storia della corsa: su 81 partenti solo 8 sono arrivati al traguardo. E pensare che c'erano atleti illustri: Carlo Galetti, Luigi Ganna, Giovanni Gerbi, Giovanni Rossignoli, Lucien Petit-Breton, vincitore di due Tour de France, Costante Girardengo, Alfonso Calzolari

Per capire l'importanza dell'impresa si devono conoscere le condizioni in cui gli atleti dovevano correre, e partiamo da un elemento inedito del Giro d'Italia: il cronometro.

Pagina di catalogo per pneumatici tipo “Milano” da corsa, 1901, courtesy Fondazione Pirelli

Il cronometro, un nuovo nemico

Prima del 1914 la classifica del Giro era determinata semplicemente dalla posizione al traguardo: se si arrivava 20° e il rivale 21°, si guadagnava un punto, non importava se si fosse arrivati due ore o due minuti prima. Questo perché viste le difficoltà e la lunghezza dei percorsi, ogni tappa era più simile a un viaggio che a una gara, e il tempo non era considerato interessante: l'importante era arrivare. È vero che alla fine del Giro la vittoria andava a chi si era piazzato sempre primo o in ottime posizioni, ma questo sistema offriva la possibilità di fermarsi per riposare: occorreva solo tener d'occhio gli avversari, e anche loro pensavano al riposo.

Con il cronometro invece tutto è registrato: si perdono dieci minuti perché si è bucata una gomma? Si devono recuperare, non c'è soluzione. Tutto è più frenetico, competitivo, e le medie diventano più alte. In più c'è anche il tempo massimo, fissato in 4 ore di distacco dal primo: se lo si superava si era squalificati.

E l'assistenza? Fai da te

Oggi i ciclisti hanno il massimo dell'assistenza, ma all'epoca i corridori dovevano provvedere da soli a ogni riparazione, anche in mezzo a una tappa da 400 km. Quindi erano costretti a portarsi dietro gli utensili, le camere d'aria, i pezzi di ricambio. In caso di foratura il ciclista doveva ripararla con i propri mezzi, e lo stesso in caso di una rottura meccanica, poiché non era ammessa la sostituzione della bici. Così ci si arrangiava, cercando aiuto tra il pubblico, o trovando una bottega lungo la strada per riparazioni improvvisate. Ma occorreva fare tutto da soli, pena la squalifica.

Regole inflessibili in tutto il mondo

Durante il Tour de France del 1913, sul leggendario Col du Tourmalet, a Eugène Christophe si ruppe la forcella a causa del fondo dissestato. Per trovare un'officina portò la bicicletta in spalla per 14 chilometri, e poi la riparò personalmente, come da regolamento. Ma ricevette una penalizzazione di 10 minuti per un “aiuto esterno”: un ragazzo del posto gli soffiò sul fuoco della forgia. In tutto Christophe, da quell'episodio soprannominato “Le Serrurier volant” ovvero “il fabbro volante”, perse tre ore e mezza, ma riuscì a completare il giro.

Catalogo per pneumatici e accessori Pirelli per velocipedi e automobili, 1899, courtesy Fondazione Pirelli

Dieci forature per tappa

All'epoca le strade non erano asfaltate, ma sterrate o ciottolose: le forature erano frequentissime. Per questo i ciclisti portavano a tracolla almeno due tubolari, e altri legati sulla bici. Pirelli serviva alla squadra della Bianchi dei tubolari da corsa incollati ai cerchi, progettati per resistere a pressioni elevate e resistere alle strade malmesse. Il modello più noto era il “Tipo Milano”, tra i più affidabili nelle competizioni nazionali, prodotto nello stabilimento Pirelli di Bicocca (Milano).

Le strade erano tremende per le forature, e potevano causare molti abbandoni. Questo perché le riparazioni risultavano difficili: il mastice per incollare i tubolari doveva asciugarsi in corsa, e i primi chilometri erano rischiosi perché poteva staccarsi. Ma per continuare ci si arrangiava in tutti i modi, magari cucendo la camera d'aria o riempiendola con erba.

Abbigliati come dei marines

Per affrontare le durissime tappe i ciclisti erano completamente attrezzati. Oltre ai tubolari avevano: una borsa di cuoio sul manubrio con bottiglie e borracce; uno zainetto dove stivare i rifornimenti (uova sode, pollo, torta di riso, panini con burro e marmellata, zucchero, banane); nel taschino anteriore c'erano le cartine topografiche e le uova fresche; nelle tasche posteriori la bottigliette del caffè.

La prima tappa: pioggia, fango, freddo e chiodi

Col senno di poi, si può pensare che la prima tappa fosse stata organizzata per sfoltire il gruppo dei ciclisti, in modo da snellire le operazioni di gestione del Giro: da Milano a Cuneo lungo un percorso di 420 km, con un valico a oltre 2.000 metri. Partenza poco dopo la mezzanotte (tutte avvenivano di notte a causa delle distanze), una situazione difficilissima per i mezzi di allora, con luci debolissime che facevano vedere sì e no due metri di strada, rendendo ancor più difficile trovare le indicazioni del percorso.

Dopo circa un'ora di pedalata, le prime importanti difficoltà: lampi, tuoni, folate di vento e una pioggia torrenziale investono il gruppo degli 81 partenti, tutti, ovviamente, senza mantellina per proteggersi. La tormenta durerà poi tutto il giorno, rendendo le strade infangate come paludi, creando difficoltà persino ai mezzi al seguito.

Poi ci sono stati i chiodi. A volte era una bravata di teppistelli che si divertivano a vedere i ciclisti arrabbiarsi alle per le forature; a volte un sabotaggio da parte di chi non gradiva il trambusto generato del Giro. Molti si devono fermare più volte per riparare le gomme, e molti restano senza tubolari, un rischio gravissimo che può pregiudicare il proseguimento al Giro.

Cartolina pubblicitaria per pneumatici Pirelli per biciclette realizzata in occasione del primo Giro d'Italia, 1909, courtesy Fondazione Pirelli

40 km di salita

Dopo quasi 200 km di tormento tra la pioggia e il fango, il gruppo arriva a Susa, dove inizia la salita: 40 km di sterrato scivoloso e gelido, con tratti da scalare con la bici che pesa oltre 15 kg, tra tubolari, attrezzi, borracce, cibo, sulle spalle. Chi cade, chi cammina piegato dal vento, chi si addormenta in sella o appoggiato ai muri: e sulla parte alta c'è il valico da affrontare sotto la pioggia, il fango e la neve.

Dopo due ore di scalata arriva la bufera di neve, da affrontare con tutte le energie perché si capisce che può già essere la svolta del Giro: chi perde troppo tempo qua potrebbe non riuscire a recuperare.  Ci sono delle crisi illustri, quelle di Girardengo e Ganna, che tuttavia non abbandonarono il Giro.

Il primo a scollinare spingendo a mano la bici è Angelo Gremo, compagno di squadra Ganna, che gli dà via libera. E lui, Berretto alla Gatsby, calzoncini corti, mantellina a faccia stravolta, salta sulla bici e vola verso Pinerolo sulla strada infangata resa ancor più scivolosa dalla pioggia.

Si ritirano in 44, la selezione è appena iniziata.

Tappe lunghissime e fughe infinite

Il secondo giorno il maltempo continua ad attaccare i superstiti, e si contano altri 10 ritiri, tra cui Ganna, per insopportabili dolori alle gambe. Si risparmiano la terza tappa, la più lunga del Giro: ben 430 km da Lucca a Roma. Qui Lauro Bordin compie una delle fughe più leggendarie della storia del Giro. Poco dopo la partenza salta un passaggio a livello, mentre il gruppo attende che si sollevi, e sfrutta il poco vantaggio (qualche minuto), per una fuga solitaria di 350 km. Lo riprendono dopo 14 ore, in vista dell'arrivo a Roma. E lui ringrazia: non ne poteva più di essere solo.

La quarta tappa, con traguardo a Napoli, è di “soli” 327 km, intensi per la fatica accumulata, e cominciano le prime crisi. Il caldo avvolge le gambe, e c'è chi giura che sarà l'ultima tappa. Mentendo.

La quinta tappa, da Napoli a Bari, mette a dura prova le gomme, a causa di un fondo durissimo con pietre, buche, sotto un cielo bianco implacabile. Resistono i più forti Alfonso Calzolari, solido e silenzioso, sembra non accusare stanchezza; cedono grandi nomi. Girardengo si ferma per fortissimi dolori alle gambe. Piange dalla delusione, ma è un solo episodio della sua storia: dominerà il ciclismo nazionale negli anni '20.

Ne restano otto

Tappa 6, da Bari a L'Aquila, gli Appennini non perdonano e inizia la selezione. Piove, il fango intrappola le ruote e a L'Aquila arrivano in 12, la montagna spezza o tempra, e così si sono ritirati altri 5 corridori.

La tappa 7, da L'Aquila a Bologna attraversa mezza Italia da sud a nord, tra la notte, l'alba e il tramonto, e di nuovo notte. È lunga, 429 km, ma nessuno ha più voglia di darsi battaglia, i giochi sono fatti. Tra fatica immensa, dolori e incidenti altri 4 ciclisti abbandonano il Giro, è in vista il traguardo, a Milano. Si raggiunge da Lugo, per altri 429 km, che per Calzolari sono una passeggiata, con quasi due ore di vantaggio sul secondo. Vince senza conquistare nemmeno una tappa, ma con una regolarità e tenacia eccezionali.

Il Giro termina al Velodromo Sempione, con l'ultimo spettacolo di un giro di pista a cronometro. I superstiti sono 8, arrivati in condizioni pietose: hanno i volti raggrinziti, le occhiaie scavate, qualcuno non si regge in piedi, altri hanno i segni di brutte cadute. Sono accolti come eroi. Nessun altro Giro sarebbe mai più stato così. Una sfida oltre i limiti.

 

Pos.    Corridore                     Tempo totale
1.        Alfonso Calzolari        135h 04′ 19″
2.        Pierino Albini                +1h 57′ 26″
3.        Luigi Lucotti                  +2h 04′ 23″
4.        Giuseppe Azzini           +2h 29′ 57″
5.        Angelo Gremo              +3h 35′ 38″
6.        Carlo Galetti                 +3h 53′ 08″
7.        Carlo Oriani                  +4h 16′ 39″
8.        Giovanni Cervi              +6h 12′ 18″

 

 

Foto a cura di: www.fondazionepirelli.org

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