La cultura automobilistica giapponese è talmente ricca e bizzarra che i giapponesi si sono inventati almeno una dozzina di parole per raccontarla. Dajiban, traslitterazione di Dodge Van, l'oggetto di culto di questa sottocultura automobilistica. Shakotan, che è quello che l'automobile diventa quando ne si abbassano di proposito ed esageratamente le sospensioni per questioni di aerodinamica ed estetica. Time attack, che è il nome di una competizione ma ormai anche del mezzo con cui si corre questa gara, una macchina modificata per completare il più in fretta possibile un giro su pista. VIP, un'estetica inventata negli anni '80 da persone attente a non attirare l'attenzione delle autorità: invece di guidare lussuose ma appariscenti macchine europee, sceglievano la discrezione di una delle tante berline di produzione nazionale. Kanjozoku, la religione pagana nata all'interno della leggendaria Osaka Loop Line, in cui si venerano le Honda Civic. Itasha, l'insieme che tiene assieme macchine e anime, scuola di design che trasforma un'automobile in un personaggio dei cartoni animati attraverso intricatissime decorazioni fatti di disegni a mano e luci Led. E ancora: Kei Truck, Dekotora (se i camion di Mad Max esistessero davvero, somiglierebbero a questi), Bosozoku (modificare un'auto per il puro piacere di farlo, al diavolo la funzionalità e l'estetica) e Kyusha (macchine d'epoca, restaurate e modificate il meno possibile).
In questo ricchissimo vocabolario, di cui abbiamo riportato solo una piccola parte, c'è anche una voce dedicata a un'officina che negli anni è diventata un tempio dell'automobilismo. Il suo nome è: Naito Auto Engineering e si trova a Higashikurume, nei pressi di Tokyo. È un'azienda a gestione famigliare passata dal nonno e fondatore Shinichi Naito ai nipoti So e Kei, e fa una cosa soltanto: ripara macchine d'epoca. Ma lo fa talmente bene e con una tale precisione, attenzione e dedizione che usare la parola “riparare” risulta inadeguato e riduttivo. Naito Auto Engineering le macchine le restaura.
Abbiamo incontrato So Naito nello stesso luogo in cui suo nonno Shinichi e suo padre Masao hanno passato tutta la loro vita: l'officina di Higashikurume, il negozio della sua famiglia, un tempio della cultura automobilistica giapponese e mondiale. Un occidentale in Giappone corre sempre il rischio di cadere nella trappola del tecno orientalismo e di immaginarsi il Paese come una gigantesca macchina del tempo perennemente in viaggio verso un futuro ipertecnologico, quasi cyberpunk. Ovviamente, non è così. Nell'officina di Naito Auto Engineering si è deciso di conservare tutto quello che si poteva conservare della “bottega artigiana” aperta da nonno Shinichi nel 1952. Questo luogo è una capsula del tempo, una specie di frattura nel continuum spaziotemporale in cui il futurismo dell'eccellenza è protetto dalla patina della tradizione.
So e suo fratello Kei sono la terza generazione a prendersi la responsabilità di custodire questo luogo sacro della car culture. E custodire è quello che So e Kei fanno, letteralmente. Dell'officina del nonno e del padre non hanno toccato quasi nulla, è rimasto tutto com'era e dov'era. Trattano questo luogo quasi come le macchine che restaurano: tutto quello che si può conservare, va conservato. «Però abbiamo dovuto cambiare il tetto, una volta. Quando pioveva ci entrava l'acqua», racconta divertito So. L'officina, per sua stessa ammissione, è bollente d'estate e glaciale d'inverno, e per questo motivo hanno deciso recentemente di rinnovarne leggermente qualche piccola parte, cercando di farlo nello stesso modo in cui lo fanno con le auto: preservandola, rendendola comunque un po' più moderna ma senza alterarne l'identità. Il caldo e il freddo, dopotutto, non sono poi così importanti. Anzi sono anche d'aiuto: «Qui dentro impari a essere stoico davvero», dice, scherzando ma non poi così tanto.
Stoico è un buon aggettivo giusto per descrivere il fondatore dell'attività, Shinichi. «Faceva il meccanico per gli aeroplani militari. Ma si ritrovò senza lavoro dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. La cosa più facile per lui fu quella di mettersi a riparare le macchine. È così che ha cominciato. Era un meccanico veramente bravo ed è incredibile pensare che fosse un autodidatta. Non ha mai frequentato una scuola d'ingegneria. Ha imparato tutto da solo ed è riuscito a fare tutto questo» racconta So di suo nonno.
La passione di Shinichi per i motori era iniziata con le moto, aveva una BSA e una Ducati. Capì che le auto erano gli oggetti più belli del mondo quando vide i soldati G.I. americani fare gare di velocità per le strade di Tokyo a bordo delle loro auto sportive europee: Porsche, MG, Mercedes-Benz. Ha deciso quindi di vendere le sue moto e aprire l'officina.
Oggi, l'officina è un luogo di culto, ma i meriti vanno divisi tra nonno Shinichi e papà Masao. È stato quest'ultimo, infatti, a trasformare l'officina in azienda. E non solo in azienda, ma proprio in un brand. Durante il miracolo economico giapponese, Masao cominciò a fare frequenti viaggi nel Regno Unito e negli Stati Uniti, dove gli amici fidati – una parola che torna spesso in questa storia –lo indirizzavano verso le aste più grandi e i venditori più interessanti. Masao, forte di un occhio allenato a trovare tesori a quattro ruote e di un tasso di cambio all'epoca assai favorevole, iniziò a importare e a restaurare le auto in Giappone. Spesso in quell'epoca riusciva a ricavare un profitto del 200 o 300 per cento.
Masao oggi è in pensione, ma continua ad andare a lavoro tutti i giorni. So e suo fratello hanno imparato ed ereditato tutto da lui e dal nonno Shinichi, superando la formazione severissima indispensabile a diventare uno shokunin, una parola che è impossibile tradurre esattamente in italiano ma il cui significato nella nostra lingua, approssimativamente, è “maestro artigiano”. «All'inizio è stato come essere uno di quegli apprendisti dei maestri di sushi, che prima di mettersi a preparare il sushi passano dieci anni solo a lavare i piatti. Ecco, a me per anni hanno permesso soltanto di lavare la carrozzeria delle auto. Ma è servito, ho imparato molto in quel modo».
È una storia così incredibile che è difficile credere che sia successa davvero, sembra la sceneggiatura di un film, uno di quei classici gli eroi improbabili alla fine compiono l'impresa impossibile. E in effetti, la storia Naito Auto Engineering un film lo è diventato: si intitola, appropriatamente, One of One, lo ha diretto il documentarista Ben Bertucci. Dopo l'uscita del film, distribuito su diverse piattaforme streaming nel 2024, l'aura leggendaria che circonda Naito Auto Engineering si è espansa, e da «segreto meglio custodito di Tokyo» l'officina è diventata quasi una meta turistica, attirando decine e decine di curiosi.
So racconta che uno dei problemi più fastidiosi che deve affrontare e risolvere ogni giorno è quello di gestire i creator che scavalcano il cancello d'ingresso e si mettono a gironzolare nella proprietà di famiglia alla ricerca di contenuti buoni da mettere sui social. «Non si può fare», è l'ovvietà che uno sconsolato So è costretto a sottolineare. Chissà cosa avrebbe fatto suo nonno al posto suo: Shinichi era l'archetipo dell'uomo giapponese vissuto nell'era Showa: «Molto silenzioso e molto severo con se stesso. Mi ricordo che da ragazzino mi diceva sempre “mi riposerò quando sarò morto”. Ha avuto sempre voglia di imparare, fino al suo ultimo giorno».
Non che i creator molesti siano in alcun modo da giustificare, ma il desiderio di vedere e sapere di più di questo peculiarissimo quartier generale è comprensibile: la parola “esclusività” non basta nemmeno lontanamente a descrivere il rapporto tra Naito Auto Engineering e i suoi clienti. Un rapporto biunivoco, paritario: è vero che i clienti scelgono l'officina, ma è altrettanto vero che l'officina si sceglie i clienti. Per certi aspetti, Naito Auto Engineering ricorda un club in cui si può entrare solo se raccomandati da un membro e solo dopo una scrupolosissima verifica delle credenziali. Ovviamente, So non può fare nomi né spiegare la “burocrazia” del suo lavoro, anche se dimostra di conoscere a menadito tutte le leggi e le regole e procedure che permettono di accelerare il processo di importazione-esportazione: sa come far arrivare una macchina d'epoca dall'Europa o dagli Stati Uniti o dall'Australia nel minor tempo, con il minor fastidio possibile. So non ha problemi neanche ad ammettere che «non è che abbiamo tutti questi clienti. Abbiamo cinque o sei clienti, ottimi clienti, con cui abbiamo un rapporto molto intimo, quasi come fossero degli amici. Conoscono la nostra filosofia, e ne capiscono sia di macchine che di restauro di macchine. Sanno come lavoriamo».
Quando parla del mercato in cui agisce l'azienda di famiglia, So usa spesso la parola niche, nicchia. È vero che il mercato del restauro di auto d'epoca è di nicchia, ma secondo la società di consulenza McKinsey vale comunque dai 25 ai 30 miliardi di euro di fatturato annuo. Non è soltanto una questione di moda o di upcycling, però. Certamente le auto d'epoca sono uno splendido oggetto da sfoggiare tanto sui social quanto in real life, ma è ingenuo pensare che i compratori agiscano mossi solo da piacere e/vanità. In un'economia mondiale caratterizzata da incertezza costante, volatilità e shock frequenti, le auto d'epoca si stanno trasformando in beni rifugio al pari di oro, orologi, opere d'arte. McKinsey sottolinea il “valore in costante aumento e l'interesse dei consumatori” per le auto d'epoca, o “da collezione”, nel corso del 2020.
Tutto questo So lo sa bene, anche se non gli piace immaginare le auto come fashion statement né come investimento, limitata al suo valore di mercato e privata della sua funzione: «Una macchina è fatta per essere guidata, altrimenti si rompe. Certo, le macchine su cui lavoriamo noi devi starci attento mentre le guidi, perché danneggiarle è come danneggiare un Picasso». L'altra cosa che So sa bene è che se aprisse i confini della sua attività, se iniziasse a moltiplicare e poi a elevare alla potenza la quantità del suo lavoro, Naito Auto Engineering continuerebbe a esistere ma smetterebbe di essere quello che è. «Lo stress si sposa male con il nostro lavoro», spiega. «Non vogliamo che la nostra azienda diventi più grande, e poi ancora più grande, e poi sempre più grande. Vogliamo lavorare con le persone giuste e mantenere i nostri standard qualitativi. Se avessi 100 clienti, o anche solo 50, non ci riuscirei. Nel nostro garage di macchine ce ne stanno poche».
I clienti dell'officina comprano tutto il tempo necessario affinché So e Kei possano fare il loro lavoro, curare il minimo dettaglio, soddisfare ogni sfizio. «È una grande sfida sia per me che per mio fratello, perché per Naito Auto Engineering noi dobbiamo essere ingegneri ma anche operai e verniciatori e venditori. Dobbiamo fare tutto noi ed è difficile, ma è così che abbiamo tenuto in piedi questa azienda per 70 anni». I clienti, spiega So, lo capiscono. Partecipano al processo di restaurazione, che nell'essenza è un processo creativo, ma non lo ostacolano. Lo osservano molto, lo commentano talvolta. A So piace ascoltare le opinioni dei clienti, dice che così è tutto più facile, si lavora molto meglio, perché quello che lui fornisce è comunque, in sostanza, un servizio e nell'industria dei servizi l'unica maniera per evitare di correre ai ripari dopo è ascoltare prima. «E poi, è anche così che ho migliorato i miei gusti», dice.
Certo, esistono sottigliezze del suo lavoro che non sono facili da spiegare neanche al più attento e ricettivo dei clienti. Per esempio, la differenza tra un'automobile restaurata e una rinnovata. Per spiegarla, So si mette a parlare di verniciatura, una delle tante cose di cui è dovuto diventare espertissimo da quando ha deciso di mettersi a lavorare per l'azienda di famiglia. «Per uno che restaura una macchina è molto più semplice rimuovere la verniciatura originale e applicarne una nuova. Non c'è niente di male, è un lavoro che dà buoni risultati. Ma nel momento in cui si toglie la vernice originale, la macchina originale smette di esistere. È per questo che noi cerchiamo in tutti i modi di non sostituire niente ma di restaurare tutto». Quando si lavora sulle macchine su cui lavorano i fratelli Naito – qualche esempio, giusto per rendere l'idea: Ferrari 250 LM, Ferrari F50, Ferrari Enzo, Porsche 907, Porsche 911 R, Porsche 356° – questo radicalismo può trasformarsi in una sfida difficilissima da affrontare. Da questo punto di vista, l'aneddotica di So è ricchissima, ma c'è un cliente e una macchina che considera i più difficili della sua carriera. «Qualche anno fa andai a Monterey, in California, perché uno dei miei clienti aveva appena comprato all'asta una Porsche 356 Speedster ridotta a un rottame. Ti dico solo che non aveva nemmeno il motore e lui, il cliente, mi disse che avrei dovuto “riportarla in vita”. Fu veramente una sfida, ci impiegai dieci mesi a finire il lavoro, riuscii a conservare la verniciatura originale e a restaurare gli interni. E alla fine eravamo tutti felici e contenti».
Cosa succede, però, quando una parte, un pezzo della macchina non funziona più o, come nel caso della Porsche 356 Speedster, manca del tutto, e non si può fare altro che cambiarlo? «Noi per fortuna conserviamo tutto e quindi ci ritroviamo molte parti di ricambio. E poi ci sono i fornitori a cui possiamo chiedere di inviarci parti originali da usare nella restaurazione». Ma col passare del tempo diventa sempre più difficile rimanere fedeli a questo credo di autenticità letterale e figurata. Per esempio, l'uso della stampante 3D per realizzare parti sostitutive è ormai prassi tra chi fa il mestiere di So. Ma si ritorna sempre allo stesso punto: nessuno fa quello che fa Naito Auto Engineering come lo fa Naito Auto Engineering. Sulle stampanti 3D So è onesto e consapevole, testardo e rassegnato: «Prima o poi dovremo scendere a questo compromesso, ma adesso non vogliamo». Compromesso è una parola che si forma spesso nella mente di So quando pensa al futuro: «È un pensiero molto difficile da formulare per me. Sia mio padre che mio nonno erano dei geni, tanto nella restaurazione che nella vendita. Noi [lui e suo fratello Kei, nda] vogliamo condurre l'azienda nella stessa maniera, vogliamo rispettare la loro eredità. Ma dobbiamo anche trovare una strada che sia la nostra. Sia io che Kei parliamo l'inglese, papà e nonno invece parlavano solo il giapponese. Quindi, forse per noi la soluzione è iniziare a pensare di fare delle cose all'estero».
A questo punto, quando So prova a immaginare il futuro, ritorna la parola che ha usato più volte per raccontare la storia della sua famiglia e della sua azienda, di suo padre e di suo nonno: amici. «Se vogliamo farcela», dice, «in ogni caso ci serviranno dei buoni amici a darci una mano».
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Foto: Federico Radaelli
Art Direction: Elena Papageorghiou