“La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche avere un'opinione,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.”
Giorgio Gaber, La Libertà, 1972
Giorgio Gaber, uno dei cantautori italiani più importanti della seconda metà del Ventesimo Secolo, descriveva così la libertà in una delle sue canzoni più famose. In quei versi, Gaber voleva far passare il messaggio che essere liberi non è tanto la possibilità di astrarsi dalla realtà o di avere la facoltà di dire o fare quello che si vuole quanto la consapevolezza di partecipare a rendere il mondo in cui si opera un posto migliore. In un certo senso, è quello che è accaduto in Formula 1 negli ultimi sette anni, da quando Liberty Media – un caso del destino vuole che l'azienda che oggi possiede la massima competizione automobilistica abbia nel suo nome proprio la parola libertà – gestisce uno degli sport più affascinanti e popolari al mondo.
Dal 2017 in avanti è stata la possibilità di partecipare in prima persona allo sviluppo dello sport – data a tutte le sue maggiori componenti: piloti, squadre, partner e, persino, appassionati – che ha fatto crescere e cambiare pelle alla Formula 1. Oggi un Gran Premio non è più un evento elitario, che ergeva attorno a sé una barriera tanto metaforica quanto reale, nella convinzione che questa lontananza avrebbe reso così desiderabili i suoi protagonisti che il pubblico sarebbe stato disposto a pagare qualsiasi prezzo pur di poter dire di esserci arrivati perlomeno vicino.
Sotto la guida di Chase Carey, Liberty Media ha iniziato a scardinare un sistema che aveva sì portato alla fine del secolo scorso la Formula 1 a diventare uno sport globale ma non aveva poi saputo adeguarsi alle sfide che il nuovo millennio poneva, soprattutto sul fronte digitale. Serviva una ventata di libertà ed è quello che c'è stato, soprattutto nel primo triennio della nuova era, con squadre e piloti che potevano finalmente sviluppare contenuti per le loro piattaforme social ma anche realizzarli in collaborazione con il detentore dei diritti commerciali e, soprattutto, è arrivata l'avventura di “Drive To Survive”, la serie di Netflix che ha fatto conoscere la realtà dello sport vista dietro le quinte: un successo planetario, che ha portato la Formula 1 a toccare fasce di pubblico – soprattutto negli USA – che prima non sapevano probabilmente nemmeno cosa fosse. I protagonisti veri della F1 – piloti e squadre – avevano potuto toccare con mano che Liberty Media aveva intrapreso una strada diversa, condividendo l'obiettivo comune a tutti di lavorare insieme per far crescere davvero lo sport. Certo, è chiaro che alla fine il business deve essere vantaggioso e profittevole perché comunque Liberty Media non è un'organizzazione filantropica ma chi temeva che la Formula 1 fosse trattata come un mero investimento mordi e fuggi è stato smentito. Il processo di condivisione degli obiettivi e di partecipazione nella realizzazione è proseguito naturalmente anche quando, dal 2021, Stefano Domenicali è succeduto a Carey alla guida dello sport. A differenza del manager statunitense, Domenicali aveva vissuto in prima persona la precedente era, visti suoi ventidue anni trascorsi nella Scuderia Ferrari, con un percorso che lo aveva visto arrivare fino al ruolo di Team Principal. Sempre aperto agli influssi esterni, Domenicali ha trascorso sette anni nel settore automotive, prima in Audi e poi in Lamborghini di cui è stato Presidente e CEO, prima di essere chiamato da Liberty Media e di fare così ritorno al primo amore.

Più libertà significa una Formula 1 migliore?
“Le parole di Gaber sono perfette anche per noi. Libertà è partecipazione ed è quello che stiamo mettendo in atto. Partecipazione di tutti gli stakeholder ma, soprattutto, partecipazione del pubblico all'evento, ascoltando la voce degli appassionati e cercando di rendere l'esperienza di un Gran Premio – che la si viva fisicamente in pista oppure davanti ad uno schermo – sempre più appagante, fruibile e accessibile”.
Come si traduce tutto questo nei fatti?
“Credo fortemente che oggi un Gran Premio sia per la città o per il Paese che lo ospitano molto più di una semplice corsa automobilistica. È un evento speciale, che attrae un'attenzione globale e che rappresenta un palcoscenico unico: non è un caso che, sempre di più, ci siano contaminazioni fra mondi diversi. Penso alla musica, non soltanto in termini di concerti che si svolgono attorno all'evento ma anche come colonna sonora dello spettacolo in pista. Penso ad altre discipline sportive, come l'NBA con cui abbiamo organizzato delle attivazioni. Penso al cinema e al film che abbiamo realizzato (uscirà nel prossimo mese di giugno, n.d.r.) insieme ad Apple e Warner e con la collaborazione di tanti partner, fra cui Pirelli, e che avrà Brad Pitt come principale protagonista: non sarà soltanto ispirato alla Formula 1 ma ne è diventato fisicamente parte, visto che alcune scene sono state addirittura registrate durante i Gran Premi. Tutti guardano a noi come a una piattaforma ideale per promuovere i loro eventi e le loro star e viceversa. Una volta non sarebbe stato possibile. Detto questo, sappiamo bene come sia fondamentale non compiacersi di quanto abbiamo raggiunto. Se c'è una lezione di vita che uno sport come la Formula 1 offre quotidianamente è che bisogna sempre continuare a spingere, sempre cercare di essere non soltanto più veloci ma anche più creativi e più innovativi: squadre e piloti per battere la concorrenza, noi per attrarre un pubblico sempre più vasto e dare ai nostri partner quel ritorno che è alla base del loro investimento”.

Quanto è stato importante per uno sport nato e cresciuto in Europa, un continente dove la storia ha un peso importante, talvolta eccessivo, che le redini siano ora in mano ad un'azienda americana?
“È stato fondamentale, perché la cultura sportiva che c'è negli USA è molto diversa dalla nostra, più aperta alle contaminazioni, più libera dalle incrostazioni legate alle tradizioni che, spesso, impediscono a uno sport di sfruttare tutto il suo potenziale. Il discorso non riguarda soltanto la Formula 1 ma tante discipline sportive che avrebbero ampi margini di crescita ma sono spesso bloccate dagli interessi dei singoli che impediscono di avere una visione d'insieme più grande. Fortunatamente, le dieci squadre che sono oggi in Formula 1 (diventeranno undici dal prossimo anno con l'arrivo della Cadillac, a conferma di quanto stia crescendo l'interesse negli USA, n.d.r.) si sono rese conto abbastanza in fretta che era giunto il momento di superare certe pastoie e di rinunciare a qualcosa sull'immediato per avere un ritorno maggiore in futuro e oggi cominciano a raccoglierne i frutti. Non accade lo stesso, ad esempio, nel calcio e lì vedo quanto gli americani stiano faticando a far passare una cultura nuova in un mondo che ancora ragiona alla vecchia maniera”.

Eppure, oggi le squadre hanno, nei fatti, molta meno libertà di vent'anni fa: regolamenti tecnici e sportivi molto più restrittivi, budget cap, limitazioni nel numero di cambi o di power unit da utilizzare, tanto per citare alcuni aspetti. Vuol dire che c'era troppa libertà prima?
“In un certo senso è vero: la troppa libertà stava portando inevitabilmente ad un aumento delle diseguaglianze e a un'escalation dei costi che, alla lunga, sarebbe diventato insostenibile, anche per i team più ricchi e sostenuti dai grandi costruttori automobilistici. L'egoismo di chi difendeva il diritto di spendere e spandere quanto voleva pur di vincere – lo dico con cognizione di causa, perché ho vissuto questa realtà dal di dentro per larga parte della mia vita professionale – non era storicamente più accettabile e sono particolarmente contento che, nei fatti, siano state proprio le squadre più grandi che hanno saputo rinunciare ad una parte del loro potenziale, nella fattispecie economico, per permettere allo sport di saper resistere alle tempeste prima – pensate a quello che è stato il biennio del COVID per la Formula 1 – e di consolidarsi e crescere poi fino a diventare delle organizzazioni economicamente sostenibili. C'è ancora del lavoro da fare su questo fronte ma siamo sulla strada giusta”.

Negli ultimi anni abbiamo visto gli sportivi comunicare sempre di più in maniera diretta, vuoi attraverso i social vuoi attraverso manifestazioni pubbliche di dissenso – come Colin Kaepernick, imitato anche da diversi piloti – vuoi addirittura attraverso il modo di vestire: come si concilia questa forte richiesta di libertà individuale con le esigenze di un'organizzazione inevitabilmente complessa, dove gli interessi di tanti protagonisti che investono nello sport – mi riferisco alle squadre, ai loro partner, ai media – devono essere tenuti necessariamente in grande considerazione?
“È un equilibrio molto difficile da trovare e qui entra in gioco anche e soprattutto l'intelligenza dei singoli. Sono contento quando i piloti fanno sentire la loro voce, non solo sulle questioni che li riguardano direttamente, sportive o tecniche, ma al tempo stesso ci tengo particolarmente, conoscendone molto bene i meccanismi mentali che, quasi sempre, li spingono, a far sì che anche loro siano consapevoli di dove la Formula 1 sta andando, quali sono gli obiettivi e come li vogliamo raggiungere. Perché non dobbiamo mai dimenticarci, nessuno di noi, che alla fine siamo giudicati dai risultati: i nostri giudici sono i fan e quelli alla lunga non li puoi ingannare. Va benissimo quindi che i piloti raccontino le loro impressioni dopo un Gran Premio attraverso i loro social ma non possono pensare che questo sia l'unico flusso comunicativo ammissibile, anche perché so bene quanto sia facile comunicare quando le cose vanno bene e arrivano solo complimenti. Il difficile arriva quando il vento soffia in direzione contraria e allora non si può semplicemente chiudere la porta al resto del mondo: sono quelli i momenti in cui c'è bisogno dei media e, rendendoli partecipi alla comunicazione, si riesce a mantenere quell'equilibrio di cui parlavo all'inizio di cui loro sono i primi beneficiari”.

Il 2025 è un anno particolare per la Formula 1.
“Celebriamo 75 anni di vita di questo sport e abbiamo voluto fare qualcosa di speciale per iniziare una stagione storica come questa. Per la prima volta siamo riusciti ad organizzare un vero e proprio evento inaugurale del campionato cui hanno preso parte tutte le dieci squadre insieme ai venti piloti ufficiali. L'evento del 18 febbraio scorso alla O2 Arena di Londra è stato qualcosa di unico per il nostro sport, paragonabile in qualche modo alla cerimonia inaugurale dei Giochi Olimpici. È stata un'ulteriore dimostrazione che oggi i protagonisti dello sport sono sempre più disposti a lavorare insieme per rendere la Formula 1 sempre più popolare e più capace di attrare un pubblico giovane e diverso, senza dimenticare le sue radici. Questo vale anche per i nostri partner: ci fa piacere che Pirelli abbia scelto l'evento di Londra per presentare in anteprima il logo disegnato per i 500 Gran Premi in Formula 1, un traguardo straordinario - che sarà raggiunto a Zandvoort il 31 agosto prossimo e festeggiato a Monza una settimana più tardi – che renderà il marchio italiano il fornitore di pneumatici più presente e longevo nella storia del nostro sport”.

In termini di linguaggio e comportamento, si può dire che gli ultimi anni hanno portato a ragionare su varie forme di limitazione della libertà, a volte anche molto severa: penso alle restrizioni imposte dal politicamente corretto o, addirittura, alle azioni necessarie al contenimento della pandemia. Non le capita mai di avere nostalgia per quel senso di libertà assoluta che si respirava ad esempio negli anni Settanta e Ottanta?
“Onestamente no. Sono assolutamente convinto che la libertà assoluta non esista: è un ideale affascinante, non lo nego, ma bisogna fare i conti con la realtà. Tutto passa dal concetto di rispetto degli altri, e la mia libertà non può non avere alcun limite perché poi va a toccare la libertà altrui, a limitarla o ad esserne limitata. Qui entra in gioco il concetto del bene comune: in una comunità perché le cose funzionino e si possa prosperare ognuno dev'essere disposto a concedere un pezzo della propria libertà e, in un certo senso, è quello che stiamo facendo nel nostro sport, anche se il paragone può suonare irriverente. L'esempio del periodo del COVID è perfettamente calzante. Al di là delle restrizioni cui ognuno di noi come cittadino del proprio Paese è stato sottoposto, come sport abbiamo agito in maniera fantastica, riuscendo a mettere insieme un campionato come quello del 2020 in cui tutti hanno fatto dei sacrifici molto rilevanti – dal punto di vista economico a quello tecnico (come ad esempio la decisione di rinviare l'introduzione dei nuovi regolamenti e di congelare lo sviluppo delle vetture, che per alcuni è stata pagata a carissimo prezzo) e a quello personale, con lo stress cui sono state sottoposte le centinaia di persone che hanno preso parte ai Gran Premi – pur di consentire alla Formula 1 di non fermarsi e andare comunque in scena”.

Lei si sente libero?
“Assolutamente. Ho avuto la fortuna di crescere in una famiglia in cui la libertà era un valore fondamentale e io ho cercato di trasmetterlo anche alla famiglia che ho oggi insieme a mia moglie Silvia, ai miei figli in particolare. Di nuovo, non la libertà di fare quello che gli pare ma quella di scegliere la loro strada, di sentirsi liberi di provare e di fare errori. Certo, io sono libero di dar loro dei consigli, di metterli nelle condizioni migliori per fare le loro scelte ma ora che stanno diventando adulti – uno, Martino ha 21 anni, l'altra, Viola ne ha 19 – e di assumersene la responsabilità”.
