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Dai Giochi Olimpici ai motori: vincere aiuta a vincere

Breve storia di atleti che hanno avuto successo anche al volante

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Ci sono persone per cui l'importante è partecipare. Poi ce ne sono altre per cui vincere non è tutto: è l'unica cosa che conta. Tra i primi viene spesso annoverato il barone Pierre de Coubertin, l'inventore dei moderni Giochi Olimpici. In realtà il nobile francese non avrebbe mai detto “L'importante non è vincere, ma partecipare”, frase formulata dal vescovo di Pennsylvania alla vigilia dei Giochi di Londra 1908. De Coubertin invece spiegò che “L'importante nella vita non è trionfare bensì combattere, non è aver vinto ma essersi ben battuto”. Agli antipodi, l'affermazione “Vincere non è tutto, è l'unica cosa che conta” è stata coniata da Henry Red Sanders, allenatore di football americano alla Università di California Los Angeles (UCLA). In seguito l'hanno fatta propria il leggendario Vince Lombardi, vincitore di cinque campionati NFL con i Green Bay Packers e Giampiero Boniperti, uomo-bandiera della Juventus prima in campo poi dietro la scrivania.

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Solitamente gli sportivi si accontentano (si fa per dire) di eccellere in un singolo sport, considerando il dispendio di energie fisiche e nervose richiesto per arrivare ai vertici. Ce ne sono alcuni però che non contenti di aver trionfato in una disciplina si allenano come degli ossessi per primeggiare anche in un'altra. Il caso più celebre è quello di Jim Thorpe, vincitore delle medaglie d'oro nel decathlon (facendo segnare anche il record del mondo) e nel pentathlon ai Giochi Olimpici del 1912 a Stoccolma, edizione in cui si piazza quarto nel salto in alto e settimo nel salto in lungo. Dichiarato professionista e quindi impossibilitato a gareggiare in atletica, Thorpe si prese la sua personale rivincita dedicandosi al baseball e al football americano: con la palla ovale vinse quattro campionati e giocò fino a 41 anni. Nel 1999 l'Associated Press l'ha inserito al terzo posto della classifica degli sportivi più forti del XX secolo dietro a Babe Ruth e Michael Jordan.
In termini motoristici è imbattibile il percorso di John Surtees, unico pilota iridato nelle due e nelle quattro ruote: ribattezzato il Figlio del Vento, dal 1956 al 1960 conquistò con le Mv Agusta tre titoli della 350 e quattro della 500. 
Un giorno, su suggerimento dell'ex collega Mike Hailwood, anch'egli passato dalle moto alle auto, Surtees si convinse a provare in circuito, a Goodwood, una Aston Martin e una Vanwall. I risultati furono strabilianti e i tentativi di ingaggio di vari team gli fecero balenare in testa l'idea di poter realizzare un'impresa unica: diventare campione del mondo in moto e in auto. Ingaggiato da Enzo Ferrari nel 1963, l'inglese coronò il suo sogno vincendo il Mondiale di Formula 1® 1964, beffando di un punto Graham Hill.

Più singolare è la vicenda del rallista Nasser Al Attiyah, che a Rio 2016 gareggerà per la sesta volta consecutiva nel tiro a volo, specialità Skeet: a Londra 2012 il principe del Qatar è addirittura riuscito a conquistare la medaglia di bronzo al sesto tiro di spareggio. Un premio meritato dopo il sesto posto a Sydney 2000 e il quarto posto di Atene 2004, gara in cui si giocò l'ultimo gradino del podio con un cubano ed uno statunitense e lo perse solo al decimo piattello di spareggio. Soddisfazioni ancora più grandi Al Attiyah se l'è prese al volante: conquistando nel 2006 il campionato del Mondo Rally Produzione (PWRC) con una Subaru Impreza STi gommata Pirelli, è diventato il primo arabo a vincere un titolo iridato FIA. Al Attiyah vanta anche due trionfi alla Dakar, nel 2014 e 2015, inoltre in quelle stesse annate è riuscito ad aggiudicarsi anche i titoli WRC2 (prima con la Ford Fiesta RRC poi con la Skoda Fabia R5), sempre con i pneumatici Pirelli. Il qatariota ha spiegato in numerose occasioni che i due sport, per quanto diversi, lo aiutano a mantenere la concentrazione per lunghi tratti in maniera costante: «Nel tiro devi guardare non solo il piattello ma anche tutto ciò che ti circonda, così come in auto cerco di scrutare il fondo all'orizzonte per cogliere ogni pietra che mi si presenta davanti». 
All'automobilismo è invece approdato tardi lo scozzese Chris Hoy, leggenda del ciclismo su pista: dopo aver vinto sei medaglie d'oro in tre edizioni dei Giochi Olimpici (da Atene 2004 a Londra 2012) e undici titoli Mondiali (dal 2002 al 2012) il baronetto ha appesa la bici al chiodo. Di auto è sempre stato appassionato fin da bambino, ma la sua prospettiva è cambiata nel 2008 quando ha partecipato a un track day all'autodromo di Bedford. Esaltato per l'esperienza provata si comprò una Caterham per girare in circuito nei ritagli di tempo. La passione montante l'ha spinto, una volta lasciato il ciclismo a 36 anni, a cercare una nuova carriera nei motori. Fattosi le ossa nel nel Campionato Britannico GT con una Nissan GT-R Nismo, Hoy ha iniziato a vincere nel 2015, conquistando con una Ginetta LMP3 motorizzata Nissan il campionato e tre gare nell'European Le Mans, nella classe LMP3. Quest'anno ha anche esordito alla 24 Ore di Le Mans con una Ligier JS P2, classificandosi diciassettesimo. Pur avendo 40 anni, ha ancora molti margini di miglioramento e non è detto che un giorno non si aggiudichi la celebre gara di durata francese.

Di un'impresa simile è stato capace lo statunitense Bruce Jenner, ora conosciuta come Caitlyn Jenner dopo la sua transizione di sesso. Ai Giochi Olimpici di Montreal 1974 Bruce vinse l'oro nel decathlon migliorando di 80 punti (un'enormità) il record del mondo che già gli apparteneva. A inizio anni Ottanta Jenner volle rimettersi in gioco e iniziò a correre in auto con una Bmw M1: rispetto ad altri sport non serviva una preparazione specifica accurata e soprattutto i suoi 31 anni non costituivano un handicap insuperabile. Poco alla volta i suoi piazzamenti iniziarono a migliorare: nel 1985 concluse al terzo posto 2 gare GT con una Ford Mustang. L'anno dopo, sempre con la stessa vettura si aggiudicò in coppia con Scott Pruett la vittoria nella classe IMSA GTO alla 12 Ore di Sebring e quella assoluta alla 300 Km di Portland. Ad undici anni di distanza dall'ultima volta in cui vi era salito, il gradino più alto del podio tornava ad essere suo. 
In quell'istante per l'opinione pubblica smise di essere una figurina del passato con un grande avvenire dietro le spalle ed un presente mediocre. Jenner tornò ad essere il migliore, riconquistando le luci dei riflettori che l'avevano accompagnato nel decennio precedente. Perché, come sostiene Damon Hill, campione del mondo di Formula 1® nel 2006: “La vittoria è tutto. I soli che si ricordano di te quando arrivi secondo sono tua moglie ed il tuo cane”. Altro che solitudine dei numeri primi, a patirla sono i secondi, i terzi e tutti quelli che arrivano dietro.