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A chi appartengono le città?

Nell'ultimo ventennio abbiamo registrato una crescita delle città come mai era accaduto prima. Ma a chi dovrebbero appartenere questi spazi urbani tanto affollati?

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Non faremmo un torto a nessuno nell'affermare che, per oltre un secolo, le nostre città sono andate definendosi in base alla necessità di ospitare una quantità sempre maggiore di auto.

E non stiamo esagerando. Le auto consumano una quantità inimmaginabile di terreno nelle città, ossia nei luoghi in cui è necessario il massimo spazio disponibile (che è oltretutto costosissimo). Si potrebbe quasi pensare che sono i veicoli a possedere la città, mentre gli umani devono accontentarsi di prendersi (e a distanza) il secondo posto.

Ad esempio, negli Stati Uniti, si ritiene che ci siano 2 miliardi di posti auto, per la maggior parte distribuiti nelle città, ossia oltre otto volte il numero effettivo delle auto in circolazione. Molte città dedicano proporzioni mastodontiche dei propri territori a strade e parcheggi: si stima che, a Washington DC, le servitù di passaggio e i parcheggi privati occupino il 44% del terreno utilizzabile. A Houston, Texas, questa percentuale raggiunge quasi il 65%.

Nonostante molte città statunitensi siano state ampiamente costruite nell'era delle auto, e siano state finalizzate a essere servite dalle automobili, visti i numeri può sembrare che siano gli umani ad essere al servizio delle automobili. Nelle città sviluppatesi in epoca pre-benzina, la situazione può diventare ancor più estrema.

Auto vs. persone

Prendiamo per esempio un'antica e venerabile città: Kolkata (chiamata, in passato, Calcutta). Per la maggior parte, era caratterizzata da stradine costruite per i pedoni o per gli occasionali carretti trainati da cavalli. Oggigiorno, le automobili hanno portato a una totale invasione della città bengalese, indisturbate dal fatto che, fino a poco fa, solo il 6% del territorio di Kolkata era servito da strade.

Davanti all'inevitabile congestione che ne è seguita, la soluzione di Kolkata è stata di costruire strade sopra altre strade. Nell'ultimo ventennio, sono stati realizzati almeno nove grandi progetti di cavalcavia (incluso uno recentemente collassato durante la costruzione). Queste opere hanno letteralmente tagliato a metà la città, con grande orrore dei conservatori, sconvolti dal modo in cui queste strade sopraelevate, ammassate le une sulle altre, stiano compromettendo gli edifici storici, distruggendo le periferie basse, bloccando la luce del sole e generando inquinamento.

E se tutto questo dovesse suonarvi retrogrado, sentite qua: nel 2014, le autorità locali di Kolkata hanno bandito le biciclette dalla maggior parte delle strade cittadine principali; questo divieto ha generato enormi proteste, ma è tuttora in vigore.

Un giro di vite sulle auto

Kolkata potrebbe essere un tipico caso di studio da prendere come riferimento in termini di mobilità non sostenibile. Tuttavia, nella maggior parte delle città del mondo, si sta seguendo un'altra traiettoria, in quanto sia i progettisti sia gli attivisti cercano un nuovo equilibrio tra auto e persone. Invece di ampliare le strade, ci sono stati movimenti per ridurre lo spazio assegnato al traffico delle auto e per reindirizzare il traffico fuori città, dove il contesto garantisce una maggiore efficienza. In questi giorni, invece di erigere cavalcavia, sembra proprio che questi debbano essere demoliti (stessa sorte capitata per molti esemplari nel Regno Unito), oppure trasformati in qualcosa di molto più sostenibile, ad es. la High Line park & trail di Manhattan (che in passato era un cavalcavia ferroviario).

Alcuni commentatori hanno ravvisato nella pandemia da Covid-19 un trigger per tali iniziative, anche se molte di esse sono partite prima dell'arrivo del coronavirus. Ad esempio, nel 2019, Oslo e Madrid hanno annunciato piani per rendere "car free" i loro centri città. Ancora nel 2016, San Francisco ha elaborato una cartina dettagliata della "smart city", che includeva la riqualificazione degli spazi pubblici, precedentemente adibiti a parcheggi sotto-utilizzati, trasformandoli in parchi e in case con un prezzo ragionevole.

Un'opportunità di cambiamento

Alcuni di questi ripensamenti sul futuro della mobilità urbana sono stati radicali. Uno studio del 2016, denominato Making Better Places, e svolto da due società di ingegneri britannici, ha analizzato quello che potrebbe accadere a Londra se la promessa delle "self-driving cars" diventasse una realtà. Si è immaginata una città in cui tutte le auto siano self-driving, in cui le stesse auto potrebbero essere molto più piccole e disporsi lungo le strade in modo più compatto, perché i veicoli automatizzati possono marciare molto più vicini rispetto a quelli controllati dall'uomo; ciò significa che le strade che utilizzano potrebbero essere più piccole, lasciando spazio da adibire a parchi o viali, mentre i parcheggi potrebbero essere trasferiti nelle periferie delle città.

Naturalmente, resta solo un grande punto interrogativo in tutta questa storia: gli abitanti delle città sono davvero intenzionati a rinunciare parzialmente alle proprie auto, quando queste fanno così parte della loro identità? Questo potrebbe proprio essere il sommo quesito, strettamente collegato alle scelte che le persone fanno nelle loro vite.

Ed è proprio in questo senso che la pandemia da coronavirus ha fornito a molti urbanisti la possibilità di prendere l'iniziativa e mettere in atto i propri piani mentre le persone erano lontane dalle città. Al loro ritorno, troveranno aree pedonali, per sedersi e rilassarsi, nonché piste ciclabili riqualificate. Lavorare alla transizione verso un nuovo stile di vita è oggi più che mai una vera e propria tentazione.